Sono passati molti giorni.
Non è più andato via e il suo sguardo mi segue sempre, sorride spesso, soprattutto se gli parlo.
Un giorno gli ho chiesto perché abbia scelto me.
Mentre gli ponevo la domanda osservavo stupito la sua bellezza che si specchiava sulla lastra di cristallo del tavolo in cucina.
- Perché tu sei il mio papà…
Mi ricordo, gli ho appoggiato la mia mano sulla sua, piccola e abbandonata, avvertendone con tenerezza la fragilità.
- Ti ho trovato nella mia stanza, come tu ci sia arrivato non lo so, ma dici continuamente d’essere mio figlio…
Sono uno scienziato, ho lavorato e non ho mai pensato a una donna per più di un giorno.
Lei è una collega. Sono sicuro che non sia rimasta incinta perché dopo abbiamo continuato il nostro lavoro insieme e l’ho vista ogni giorno, quindi… lui non è mio, assolutamente certo. Non mi assomiglia per nulla, egli è biondo e ha occhi grandi, dall’iride grigia, un piccolo naso affilato e diritto, insomma, non prendiamoci in giro. Arriverà il momento in cui prenderò un suo capello e lo sottoporrò all’esame del DNA, lo confronterò col mio e allora vedrò che avevo ragione. Ritornando al momento in cui l’ho messo con le spalle al muro, ponendogli la domanda non come a un bambino, ma come si fa con chi si vuole smascherare, egli non s’è turbato:
- Papà, io sono sempre stato in quella stanza, è la mia, te lo ricordi? Dai, me l’hai comprata tu, in quel negozio in centro.
- Ti sbagli, mi prendi in giro, io non ho mai comprato una cameretta a un bambino!
I suoi occhi erano spalancati e stupiti, posso giurare che la più pura innocenza era stampata sul suo viso:
- Oh papà, perché mi tratti così, forse non ricordi ora, sei stanco, lavori sempre e mi trascuri. Non m’importa, c’è Laura con me e sto bene, mi diverte. Sai, anche se non ho una mamma lei è come se lo fosse…
- Basta! Ora basta, vuoi restare qui? Certo una bella casa, tutto quello che vuoi. Ti ci sei infilato e continui a chiamarmi papà con quella voce... Piantala e dimmi la verità!
Avevo urlato alzandomi dalla sedia improvvisamente, afferrandogli le braccia e scuotendolo. Vedevo i suoi occhi allargarsi e riempirsi di lacrime, i capelli sottili lasciare la fronte scoperta.
- No lasciami papà, mi fai male…No, no!
Era solo un bambino, lo lasciai andare ed egli scappò via nella camera che era il mio studio, cavolo! il posto dove mi rifugiavo se dovevo riflettere e dove mi era apparsa lei. Forse stavo andando fuori di testa. No, non sarebbe finita così, dovevo capire, capire…
Da quel giorno non l’ho più interrogato. Sapete cosa vuol dire avere un bimbo per casa, doverlo accudire, vestirlo. La signora Laura continua a riordinare la casa, solo che ora resta con lui quando io non ci sono, lo porta a scuola e va a riprenderlo, gli prepara i pasti e lo aiuta a crescere. La sera, quando ritorno aprendo la porta immerso in qualche problema che devo risolvere, ancora con la mente al laboratorio, mi spavento all’urto ch’egli mi da abbracciandomi le gambe ridendo:
- Non passava più il tempo, mi annoiavo senza di te oggi!
Gli poso la mano sulla testa e ritorno alla realtà, sono a casa e quello è un bimbo che non conosco e a cui non riesco a voler bene come dovrebbe un padre, eppure lui mi ama. Certo, dopo quasi un semestre che è con me, non posso negare che mi faccia piacere vederlo e sapere che sta bene, che sia felice di avermi accanto. Non sono cattivo io…Solo che questa faccenda non mi convince, non posso risolverla e sono un tipo che deve risolvere.
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