C'è una gatta che ama girare di notte, gira per i campi cercando quello che trova per cibarsi per mangiare, per soddisfare il suo bisogno di caccia, di sangue, sentire il profumo della preda da agguantare. Strisciare sull'erba bagnata dall'umidità per cacciare il povero topino, che sarà il suo gioco il suo trofeo. Poi agguantatolo in un sol morso si ode lo squittio della morte. Nel silenzio il topino si lamenta ma la gatta gode di quel lamento, animalesco, ormai non lo molla più; la morsa che attanaglia il povero piccolo roditore non da scampo. Ormai la gatta è la padrona del gioco. Si diverte a torturarlo a giocarci nel buio della notte. Il sangue del topo cola. "La felina" non lo lascia scappare. Ormai è un gioco che deve vincere che ha già vinto.
Porterà sotto un pergolato la sua preda, la sviscererà in piccoli pezzettini lasciando sul pavimento della pergola le frattaglie sanguinolente, lascerà tutto come ha scomposto con i denti aguzzi. Solo una cosa mancherà da quel gioco di vita-morte tra i due, la testa del topo; mangiata smembrata ingoiata con avidità. Della testa del povero roditiore non più traccia, il cervello del topo appartiene al felino; e ne assapora le idee che vagavano in esso i pensieri, le immagini viste, la linfa della vita.
E se tutto ciò fosse trasportato nel mondo uomo-donna, e non fosse un racconto ma la realtà del mondo animale "dell'homo sapiens?".